
Signori della guerra, oro e fame: chi trae davvero profitto dal declino economico del Sudan? – Immagine creativa: Xpert.Digital
Inflazione al 200%, metà dell'economia distrutta: la brutale realtà del Sudan dietro i numeri
Da faro di speranza a “stato fallito”: la tragica storia del collasso economico del Sudan
L'idea che le aziende sudanesi possano cercare di espandersi nel mercato europeo nel mezzo dell'attuale devastazione si scontra con una dura e tragica realtà. Qualsiasi discussione su strategie di ingresso nel mercato, partnership commerciali o "conquista" dei mercati tedeschi non è solo prematura, ma anche un fondamentale errore di valutazione della situazione catastrofica di un Paese le cui strutture economiche e sociali sono state sistematicamente polverizzate. Il Sudan non è un mercato difficile: nelle circostanze attuali, non lo è praticamente più.
La guerra civile tra le Forze Armate Sudanesi (SAF) e le Forze di Supporto Rapido (RSF), in corso dall'aprile 2023, ha innescato un completo collasso economico. I dati dipingono un quadro distopico: il prodotto interno lordo è crollato del 42%, il tasso di inflazione è schizzato al 200% e 5,2 milioni di posti di lavoro, ovvero la metà dell'occupazione totale, sono andati persi. Quello che un tempo era il cuore economico del Paese, la capitale Khartoum, giace in rovina dopo quasi due anni di incessanti combattimenti.
Ma dietro queste cifre astratte si cela una tragedia umanitaria di proporzioni globali. Con oltre 30 milioni di persone bisognose di aiuti e 12,9 milioni di sfollati, il Sudan sta vivendo la più grande crisi di rifugiati al mondo. Una carestia diffusa dilaga in gran parte del Paese. L'economia non solo è stata indebolita, ma si è trasformata in un'economia di guerra, dove i signori della guerra finanziano la loro macchina da guerra saccheggiando risorse come l'oro e soffocando qualsiasi attività imprenditoriale civile.
Questo articolo non è quindi una guida a un ingresso impossibile nel mercato. Piuttosto, è un'analisi cruda del collasso economico, che mette in luce le ragioni strutturali per cui il Sudan ha di fatto cessato di esistere come partner commerciale. Esamina come un futuro promettente sia stato sprecato, come funziona l'economia di guerra e perché qualsiasi speranza di ripresa economica dipenda dalla fine del conflitto e da decenni di ardua ricostruzione.
Dalla sostanza alla speculazione: perché la realtà economica sudanese non consente l’espansione europea
La questione delle opportunità di espansione per le aziende sudanesi nei mercati tedesco ed europeo si scontra con una scomoda verità: il Sudan attualmente non dispone di una solida base privata che giustifichi o consenta l'espansione commerciale internazionale. La guerra civile che infuria dall'aprile 2023 tra le forze armate sudanesi e le Forze di Supporto Rapido paramilitari non solo ha devastato fisicamente il Paese, ma ha anche polverizzato qualsiasi infrastruttura commerciale esistente. La situazione economica non è solo difficile, è catastrofica a tal punto che qualsiasi discussione sulle strategie di ingresso nel mercato europeo diventa assurda.
Le cifre parlano da sole: il prodotto interno lordo del Sudan è crollato da 56,3 miliardi di dollari nel 2022 a circa 32,4 miliardi di dollari entro la fine del 2025, con una perdita cumulativa del 42% della produzione economica totale. Il tasso di inflazione ha raggiunto un astronomico 200% nel 2024, mentre allo stesso tempo sono andati persi 5,2 milioni di posti di lavoro, ovvero la metà dell'intera popolazione attiva. Non si tratta di una recessione, ma di un collasso economico totale. Oltre 30 milioni di persone, oltre il 60% della popolazione, necessitano di assistenza umanitaria, 12,9 milioni sono sfollati e almeno 14 regioni stanno attraversando una grave carestia.
Parlare di "industrie e aziende sudanesi" che potrebbero "espandere i propri affari in Europa" in queste circostanze travisa fondamentalmente la realtà. Non ci sono praticamente più aziende sudanesi funzionanti che possano operare oltre la mera sopravvivenza. La produzione industriale è crollata del 70% e la creazione di valore agricolo del 49%. Persino le poche grandi aziende esistenti prima della guerra, come il Gruppo DAL, hanno cessato o trasferito le loro attività. L'infrastruttura bancaria è crollata, le rotte commerciali sono state interrotte e la capitale, Khartoum, un tempo cuore economico del Paese, giace in rovina.
Questa analisi non esamina quindi le possibilità di un'illusoria espansione sudanese in Europa, bensì le ragioni strutturali per cui il Sudan non esiste effettivamente come partner economico nelle condizioni attuali e quali trasformazioni fondamentali sarebbero necessarie per poter nuovamente pensare a relazioni commerciali internazionali.
Da faro di speranza a zona di guerra: la distruzione economica di un paese
La tragedia del Sudan non risiede solo nell'attuale catastrofe, ma anche nell'opportunità mancata. Ancora nel 2019, dopo il rovesciamento del dittatore Omar al-Bashir, la speranza internazionale ha iniziato a emergere. La Germania ha organizzato una Conferenza di partenariato per il Sudan nel giugno 2020, durante la quale i partner internazionali hanno impegnato un totale di 1,8 miliardi di dollari per sostenere il processo di trasformazione. Nel 2021, il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale hanno concesso al Sudan una riduzione del debito nell'ambito dell'iniziativa HIPC, riducendo il suo debito estero da 56,6 miliardi di dollari a circa 6 miliardi di dollari. Sembrava che il Sudan, dopo decenni di isolamento, potesse diventare un partner stabile.
Queste speranze furono infrante dal colpo di stato militare dell'ottobre 2021, quando il generale Abdel Fattah al-Burhan prese il potere e rovesciò il governo civile di transizione. Gli aiuti internazionali furono congelati e i programmi di sviluppo sospesi. Ma la vera catastrofe si aprì nell'aprile 2023, quando la lotta di potere tra l'esercito di al-Burhan e le Forze di Supporto Rapido guidate dal generale Mohamed Hamdan Dagalo sfociò in una guerra civile.
Le conseguenze economiche furono devastanti e senza precedenti nella loro rapidità. La produzione industriale era tradizionalmente concentrata nell'area metropolitana di Khartoum, proprio dove infuriavano i combattimenti più feroci. Le fabbriche furono saccheggiate, i macchinari distrutti o rubati e gli impianti di produzione bombardati. La battaglia di Khartoum durò quasi due anni ed è considerata una delle battaglie più lunghe e sanguinose mai combattute in una capitale africana, con oltre 61.000 morti nella sola regione della capitale. Solo nel marzo 2025 l'esercito riuscì in gran parte a cacciare le RSF da Khartoum, ma a quel punto la città era già un guscio in rovina di se stessa.
Anche l'agricoltura, che prima della guerra contribuiva per circa il 35% al PIL e impiegava l'80% della forza lavoro, ha subito perdite drammatiche. La produzione di cereali nel 2024 è scesa del 46% rispetto al livello del 2023 e del 40% rispetto alla media quinquennale. Molti agricoltori non sono stati in grado di coltivare i loro campi perché erano fuggiti o perché le aree erano diventate campi di battaglia. I prezzi degli alimenti di base sono saliti alle stelle: riso, fagioli e zucchero sono diventati inaccessibili in alcune regioni, mentre i prezzi della carne sono più che raddoppiati.
Il settore aurifero, che generava circa il 70% dei proventi delle esportazioni, è stato di fatto criminalizzato. Entrambe le parti in conflitto – l'esercito e le RSF – hanno preso il controllo delle miniere d'oro e ne utilizzano i proventi per finanziare le loro azioni belliche. Si stima che dall'80 all'85% dell'oro sudanese venga contrabbandato all'estero, principalmente verso gli Emirati Arabi Uniti. Le esportazioni ufficiali di oro verso gli Emirati Arabi Uniti, pari a 750,8 milioni di dollari nella prima metà del 2025, riflettono solo una frazione del volume commerciale effettivo. Questa economia di guerra impedisce qualsiasi sviluppo economico ordinato e ha trasformato il Sudan in uno stato fallito in cui la criminalità organizzata e le strutture dei signori della guerra hanno preso il sopravvento.
Le relazioni economiche tra Germania e Sudan, storicamente sviluppate, erano già marginali prima della guerra. Il volume degli scambi bilaterali nel 2021 ammontava a soli 128 milioni di euro. Le esportazioni tradizionali del Sudan verso la Germania – cotone, gomma arabica e sesamo – costituivano solo una minima parte del volume delle importazioni tedesche. Al contrario, il Sudan importava principalmente macchinari, attrezzature e prodotti finiti dalla Germania. Dallo scoppio della guerra, questo commercio, già modesto, si è praticamente interrotto, con statistiche del Regno Unito che mostrano che persino il commercio britannico con il Sudan, seppur a un livello basso, ora consiste quasi interamente in beni umanitari.
Gli sviluppi storici rivelano quindi un modello di opportunità mancate: il Sudan possedeva certamente un potenziale economico dopo la sua indipendenza nel 1956, ma lo ha sprecato attraverso decenni di guerra civile, cattiva gestione e sanzioni internazionali. Il breve periodo di speranza dal 2019 al 2021 è stato brutalmente interrotto da un rinnovato regime militare e dalla guerra. La situazione attuale rappresenta un punto di minimo storico, da cui la ripresa – anche nello scenario più ottimistico – richiederà decenni.
L'anatomia di un crollo: l'economia di guerra e i suoi profittatori
Il collasso economico sudanese segue meccanismi specifici che vanno ben oltre le normali recessioni. Al centro c'è la trasformazione da un'economia di mercato – seppur fragile – a un'economia di guerra controllata da due attori militari il cui unico obiettivo economico è finanziare la loro macchina bellica.
Le Forze di Supporto Rapido (RSF), sotto il comando del generale Dagalo, hanno ottenuto il controllo delle redditizie miniere d'oro del Darfur e del Kordofan settentrionale. Questa milizia paramilitare, che ha avuto origine dai famigerati cavalieri Janjaweed, controlla vaste aree delle regioni minerarie aurifere occidentali. Si stima che solo nel 2024 le miniere controllate dalle RSF nel Darfur abbiano estratto oro per un valore di 860 milioni di dollari. La maggior parte di questa somma viene contrabbandata illegalmente negli Emirati Arabi Uniti, che in cambio forniscono armi e munizioni: un perfetto esempio della maledizione delle risorse che perpetua i conflitti armati.
Le forze armate sudanesi, a loro volta, controllano infrastrutture strategiche, porti e imprese statali, nella misura in cui siano ancora funzionanti. Port Sudan, sul Mar Rosso, il porto marittimo più importante del Paese, funge da punto di trasbordo per le esportazioni di petrolio e oro, nonché per le importazioni di armi. Nessuna delle due parti in conflitto ha alcun interesse a un'economia civile funzionante; ciò non farebbe altro che mettere a repentaglio il loro controllo sulle risorse e sui flussi di entrate.
Per la restante popolazione civile e le poche imprese attive rimaste, questa economia di guerra equivale di fatto a un'espropriazione. Le organizzazioni internazionali segnalano saccheggi sistematici da entrambe le parti, estorsioni, arresti arbitrari e confische di beni e mezzi di produzione. Le piccole e medie imprese, che costituiscono la spina dorsale di qualsiasi economia funzionante, non possono operare in queste condizioni. Il Gruppo Dal, uno dei maggiori conglomerati privati del Sudan con attività nella produzione alimentare e in altri settori, ha cessato la produzione o l'ha trasferita in luoghi più sicuri.
Gli indicatori macroeconomici riflettono questo collasso istituzionale. Il tasso di inflazione del 200% nel 2024 è il risultato di una combinazione di stampa di moneta per finanziare guerre, interruzioni delle importazioni e il crollo della lira sudanese. Il tasso di cambio ufficiale è privo di significato; sul mercato nero vengono offerti tassi di cambio ben peggiori. Ciò rende impossibile qualsiasi calcolo per le attività orientate all'importazione o all'esportazione. La valuta non è più una riserva di valore, ma semplicemente un mezzo di scambio in rapido deprezzamento.
La disoccupazione ha raggiunto livelli catastrofici, con la perdita di 5,2 milioni di posti di lavoro, circa la metà di tutti gli impieghi formali. La situazione è particolarmente grave nel settore dei servizi e nell'industria, concentrati a Khartoum e dintorni. Molti lavoratori sono fuggiti o non hanno più un lavoro a cui tornare. Anche l'economia informale, che rappresentava oltre la metà della produzione economica anche prima della guerra, è in gran parte crollata, poiché la mobilità è limitata e i mercati non funzionano più.
Il sistema bancario – un prerequisito per qualsiasi attività economica moderna – è di fatto collassato. Gli sportelli bancomat non funzionano, i bonifici internazionali sono praticamente impossibili e i prestiti non vengono erogati. Anche le transazioni commerciali più semplici devono essere effettuate in contanti, il che è difficilmente praticabile data la dilagante iperinflazione e l'incertezza. Le sanzioni internazionali, tra cui l'embargo sulle armi, i divieti di viaggio e il congelamento dei beni, complicano ulteriormente qualsiasi attività commerciale transfrontaliera.
La bilancia commerciale rivela lo squilibrio strutturale: nella prima metà del 2025, il Sudan ha esportato principalmente oro (750,8 milioni di dollari negli Emirati Arabi Uniti), animali vivi (159,1 milioni di dollari in Arabia Saudita) e sesamo (52,6 milioni di dollari in Egitto). Le importazioni consistevano principalmente in macchinari dalla Cina (656,5 milioni di dollari), prodotti alimentari dall'Egitto (470,7 milioni di dollari) e prodotti chimici dall'India (303,6 milioni di dollari). Ciò dimostra che, anche in stato di guerra, il Sudan esporta materie prime e importa prodotti finiti, un modello commerciale coloniale che non fornisce alcuna base per lo sviluppo industriale o per esportazioni di alto valore.
Gli attori di questo sistema sono chiaramente definiti: l'esercito e le milizie controllano settori redditizi come l'oro e il petrolio; le reti internazionali di contrabbando assicurano le esportazioni illegali; gli stati confinanti – in particolare Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita – traggono profitto come acquirenti di materie prime a basso costo e fornitori di armi costose. La società civile e gli imprenditori sono vittime di questa equazione, non attori. Non c'è traccia di una classe media imprenditoriale in grado di conquistare i mercati internazionali.
Un paesaggio di rovine invece di un ambiente imprenditoriale: lo status quo nel novembre 2025
Nel novembre 2025, la situazione economica del Sudan si presenta come una catastrofe umanitaria ed economica di proporzioni storiche. Il Paese sta attraversando la più grande crisi di sfollamento al mondo e una delle peggiori carestie della storia recente.
Gli indicatori quantitativi più importanti dipingono un quadro desolante: si prevede che il PIL raggiungerà i 32,4 miliardi di dollari nel 2025, il 42% in meno rispetto al livello prebellico del 2022. L'inflazione oscilla tra il 118 e il 200%, azzerando i risparmi e rendendo impossibile qualsiasi calcolo dei prezzi. Il reddito pro capite è sceso da 1.147 dollari (2022) a una stima di 624 dollari (2025). Questo colloca il Sudan tra i paesi più poveri del mondo.
La dimensione umanitaria sfida ogni immaginazione: 30,4 milioni di persone, più della metà della popolazione totale stimata di 50 milioni, necessitano di assistenza umanitaria. Si tratta della più grande crisi umanitaria al mondo. 12,9 milioni di persone sono sfollate, di cui 8,9 milioni sfollati interni e 4 milioni di rifugiati nei paesi limitrofi. L'Egitto ha accolto il maggior numero di sudanesi (circa 1,2 milioni), seguito dal Ciad (1 milione), dal Sud Sudan (1 milione) e da altri stati limitrofi.
La situazione alimentare è catastrofica: 24,6 milioni di persone soffrono di insicurezza alimentare acuta e 637.000 persone – il numero più alto al mondo – stanno affrontando una carestia catastrofica. Una carestia è stata ufficialmente dichiarata nel campo di Zamzam, nel Darfur settentrionale, nell'agosto 2024, la prima del suo genere da anni. Almeno altre 14 regioni sono gravemente minacciate dalla carestia. Oltre un terzo dei bambini soffre di malnutrizione acuta, con un tasso che in molte aree supera la soglia del 20% che definisce la carestia.
Le infrastrutture sono distrutte in ampie zone del Paese. A Khartoum, la capitale economica e politica, un tempo abitata da oltre 6 milioni di persone, interi quartieri sono in rovina. Edifici residenziali sono stati bombardati, ospedali saccheggiati e scuole trasformate in basi militari. Il 31% delle famiglie urbane è stato costretto a trasferirsi. La rete stradale è danneggiata dai combattimenti e i ponti sono distrutti o chiusi dall'esercito. L'aeroporto di Khartoum è stato riconquistato dall'esercito solo alla fine di marzo 2025, ma non è ancora operativo.
Nella maggior parte dei centri urbani, l'approvvigionamento di elettricità e acqua non è più affidabile. Questo non solo interrompe la vita quotidiana, ma rende anche impossibile qualsiasi produzione industriale. Gli ospedali devono, se non altro, funzionare con generatori di emergenza. Il sistema sanitario è al collasso: molte strutture sanitarie sono chiuse, saccheggiate o distrutte. I medicinali scarseggiano. Epidemie di colera e morbillo imperversano dal 2024; ad aprile 2025 erano stati registrati quasi 60.000 casi di colera con oltre 1.640 decessi.
Anche le infrastrutture educative sono in rovina. Scuole e università sono state chiuse dall'inizio della guerra o sono state riconvertite in rifugi di emergenza per gli sfollati. Un'intera generazione di bambini e ragazzi non riceve più un'istruzione. Ciò avrà conseguenze a lungo termine sullo sviluppo del capitale umano e ostacolerà qualsiasi ripresa economica.
Per le aziende, questo status quo significa: non esiste un ambiente imprenditoriale funzionante. Non c'è certezza del diritto, né istituzioni affidabili, né rispetto dei contratti. Anche nelle regioni meno colpite dalla guerra, come lo stato del Mar Rosso dove si trova Port Sudan, le normali attività commerciali sono impossibili. Sebbene la città portuale sia sotto il controllo dell'esercito e abbia accolto molti rifugiati da Khartoum, soffre di sovrappopolazione, inflazione e costante insicurezza. Anche qui, il costo della vita è salito alle stelle: un chilo di carne costa 26.000 sterline sudanesi (43 dollari), circa il doppio del prezzo prebellico.
Le sfide più urgenti possono essere riassunte come segue: in primo luogo, la salvaguardia immediata della sopravvivenza di milioni di persone minacciate da fame, malattie e violenza. In secondo luogo, la fine delle ostilità e un cessate il fuoco sostenibile, di cui al momento non vi è alcun segno. In terzo luogo, il graduale ripristino delle funzioni e delle infrastrutture statali di base. In quarto luogo, la trasformazione economica a lungo termine, che significherebbe un passaggio da un'economia di guerra e dalla dipendenza dalle materie prime a un'attività economica diversificata e produttiva. Tra la situazione attuale e questo obiettivo a lungo termine si apre un abisso, un abisso che nessun concetto di marketing, per quanto ambizioso, può colmare.
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Dalla gomma arabica all’oro: perché il Sudan sta fallendo nel mercato europeo
L'illusione dell'espansione: perché le aziende sudanesi non possono arrivare in Europa
Una valutazione obiettiva di quali industrie e aziende sudanesi potrebbero cercare di espandere la propria attività in Germania e in Europa porta a una risposta chiara: non ce ne sono. L'idea che le aziende sudanesi possano usare la Germania come "punto di partenza per conquistare i mercati tedesco ed europeo" nella situazione attuale è del tutto priva di fondamento fattuale. Non esistono aziende sudanesi funzionanti con capacità di esportazione, né sarebbero in grado di soddisfare i complessi requisiti normativi, logistici e patrimoniali per l'ingresso nel mercato europeo.
Consideriamo i settori più interessanti dal punto di vista teorico. La gomma arabica sarebbe tradizionalmente un prodotto di esportazione ad alto potenziale. Il Sudan produce circa il 70-80% della gomma arabica mondiale, utilizzata nell'industria alimentare e delle bevande. Tuttavia, la produzione è crollata dall'inizio della guerra ed è controllata dalle fazioni in guerra. Le catene di approvvigionamento sono interrotte, i controlli di qualità sono cessati e la lavorazione, se mai avviene, avviene nelle condizioni più rudimentali. L'ingresso nel mercato alimentare europeo, altamente regolamentato, che richiede certificazioni e tracciabilità rigorose, è semplicemente impossibile.
La situazione è simile per il sesamo, di cui il Sudan è stato storicamente uno dei maggiori esportatori, rappresentando il 40% della produzione africana. Tuttavia, le regioni di coltivazione del sesamo si trovano in zone di guerra, il raccolto è drasticamente diminuito e le poche esportazioni esistenti sono destinate a Cina, Giappone e paesi limitrofi, non all'Europa. La creazione di valore è limitata alle esportazioni di materie prime; non c'è lavorazione, nessun marchio, nessuna differenziazione del prodotto. Un'azienda sudanese che volesse commercializzare prodotti a base di sesamo in Europa dovrebbe competere con fornitori consolidati provenienti da India, Myanmar e America Latina: un compito arduo per un produttore dilaniato dalla guerra e privo di capitali, tecnologia e accesso al mercato.
Il settore dell'oro è l'unico a generare ancora volumi di esportazione significativi, ma ciò avviene illegalmente e finanzia guerre. I commercianti di oro sudanesi che volessero esportare in Europa si troverebbero immediatamente ad affrontare sanzioni internazionali e normative antiriciclaggio. Il Kimberley Process e meccanismi di certificazione simili per i minerali provenienti da zone di conflitto impedirebbero qualsiasi commercio. Anche se fosse possibile esportare oro "pulito", la concorrenza delle raffinerie d'oro consolidate in Svizzera, Germania e Regno Unito sarebbe schiacciante.
L'allevamento è un altro settore tradizionale con potenziale teorico: il Sudan possiede una delle più grandi popolazioni di bestiame in Africa e le esportazioni di animali vivi costituiscono una parte significativa dei suoi proventi da esportazione, principalmente verso i paesi arabi. Tuttavia, l'esportazione di animali vivi in Europa è altamente regolamentata e sempre più controversa a causa di preoccupazioni veterinarie e legate al benessere degli animali. Anche se gli esportatori sudanesi riuscissero a soddisfare gli standard europei, si tratterebbe di un'attività a basso margine con notevoli ostacoli logistici. I prodotti a base di carne lavorata provenienti dal Sudan, che consentirebbero margini più elevati, sono attualmente fuori questione, poiché le infrastrutture di lavorazione sono distrutte e gli standard igienici non possono essere mantenuti.
Le poche grandi aziende rimaste in Sudan – come la Banca di Khartoum, Sudan Telecom e le compagnie petrolifere statali – operano, se non altro, solo a livello nazionale e faticano a sopravvivere. Queste aziende non dispongono né delle risorse né dell'orientamento strategico per l'espansione internazionale. La maggior parte di esse è inoltre di proprietà statale e soggetta a sanzioni internazionali o, quantomeno, a una due diligence rafforzata da parte delle banche occidentali.
Le piccole e medie imprese (PMI), che costituiscono la spina dorsale dell'economia e stimolano l'innovazione nelle attività di esportazione in molti paesi in via di sviluppo, attualmente esistono solo in forma rudimentale in Sudan. Durante la guerra sono emerse centinaia di microimprese che producono beni di prima necessità come latticini, materiali da imballaggio e detergenti. Tuttavia, queste aziende sono orientate ai mercati locali, utilizzano spesso tecnologie rudimentali, dispongono di risorse estremamente limitate e mancano di esperienza nell'esportazione o nel commercio internazionale. L'idea che un piccolo produttore sudanese di vasi di terracotta o sapone possa conquistare il mercato tedesco è assurda.
Il confronto con le storie di espansione africana di successo rende l'impossibilità ancora più evidente. Le startup tecnologiche keniote, gli esportatori di caffè etiopi e i fornitori automobilistici marocchini hanno raggiunto il successo in stati funzionanti con relativa stabilità politica, infrastrutture e accesso al capitale. Il Sudan non offre nulla di tutto ciò. Persino paesi come il Sud Sudan o la Somalia, anch'essi afflitti da conflitti, hanno almeno una certa stabilità in alcune aree e sono stati in grado di mantenere strutture economiche rudimentali. Il Sudan è al collasso totale.
Gli ostacoli normativi e pratici per le aziende sudanesi che entrano nel mercato europeo sono enormi. Le normative UE sulle importazioni richiedono prove di origine, certificati di qualità, sdoganamento e conformità agli standard di prodotto. I partner commerciali tedeschi condurrebbero controlli di due diligence, sollevando dubbi sulla registrazione aziendale, sui bilanci, sulla documentazione fiscale e sulla reputazione. Nessuna azienda sudanese è attualmente in grado di soddisfare nessuno di questi requisiti. Anche i trasferimenti di denaro sarebbero problematici, poiché il sistema bancario sudanese è disfunzionale e le banche internazionali rifiuterebbero le transazioni dal Sudan a causa di sanzioni e rischi di riciclaggio di denaro.
L'idea di un "partner tedesco forte e specializzato in marketing, pubbliche relazioni e sviluppo commerciale" non risolve questi problemi fondamentali. Il marketing non può vendere un prodotto inesistente. Le pubbliche relazioni non possono trasformare un paese dilaniato dalla guerra in un partner commerciale attraente. Lo sviluppo commerciale non può costruire relazioni commerciali dove non c'è business. Un fornitore di servizi tedesco affidabile sconsiglierebbe di collaborare con "partner" sudanesi, poiché i rischi reputazionali, le incertezze legali e le impossibilità pratiche distruggerebbero qualsiasi potenziale business.
Analisi comparata: quando la guerra distrugge l'economia
Uno sguardo ad altri paesi colpiti da conflitti armati o crisi economiche evidenzia sia la natura unica che la tragedia della situazione sudanese. L'analisi comparativa rivela le condizioni che rendono possibile la ripresa economica e perché il Sudan attualmente non riesce a soddisfarle.
La Siria ha vissuto una guerra civile ancora più lunga e sanguinosa, in corso dal 2011. Eppure, persino in Siria, strutture economiche rudimentali sono sopravvissute nelle aree controllate dal governo. Damasco e altre città continuano a funzionare, seppur su scala limitata. Gli esportatori siriani, principalmente provenienti dalla diaspora, intrattengono relazioni commerciali e i prodotti siriani – olio d'oliva, tessuti, cibo – raggiungono i mercati internazionali, spesso attraverso paesi terzi. La differenza cruciale: la Siria ha un governo funzionante che controlla il territorio e una diaspora con capitali e reti internazionali. Il Sudan non ha né l'uno né l'altro in misura sufficiente.
L'Ucraina offre un paragone diverso: un paese in guerra che tuttavia cerca di mantenere i legami economici e di attrarre investitori internazionali. Le aziende ucraine continuano a esportare grano, prodotti siderurgici e servizi IT. Le conferenze internazionali discutono di ricostruzione e mobilitano miliardi di aiuti. L'Ucraina gode di un massiccio sostegno occidentale, ha un'infrastruttura relativamente sviluppata (nonostante i danni di guerra), un sistema educativo efficiente e un'amministrazione funzionante in gran parte del paese. Inoltre, l'Ucraina sta combattendo contro un aggressore esterno, il che mobilita la solidarietà internazionale. Il Sudan, d'altra parte, è una guerra civile in cui entrambe le parti commettono crimini di guerra e la solidarietà internazionale è limitata.
La Somalia è forse il caso più simile: un paese segnato da decenni di guerra civile e dal collasso dello stato. Eppure, persino la Somalia ha visto un modesto sviluppo economico in alcune regioni, in particolare nel Somaliland, un paese relativamente stabile. L'allevamento di bestiame, i servizi di trasferimento di denaro e il commercio locale funzionano. Le comunità della diaspora somala in Europa e Nord America sono forti e investono nella loro patria. La diaspora sudanese è più piccola e meno interconnessa, e il conflitto è più diffuso, il che non lascia sottoregioni sicure in cui l'attività economica possa prosperare.
Il Ruanda, dopo il genocidio del 1994, è un esempio di trasformazione riuscita a seguito di una violenza catastrofica. Il Paese ha assistito all'uccisione di circa un milione di persone nel giro di pochi mesi. Ciononostante, ha ottenuto una ripresa notevole, guidata da una governance forte (seppur autoritaria), dagli aiuti internazionali, dagli investimenti in istruzione e infrastrutture e da una politica deliberata di riconciliazione e sviluppo economico. Il Sudan manca di tutti questi prerequisiti: non esiste un governo riconosciuto dotato di autorità e legittimità, gli aiuti internazionali sono limitati e spesso bloccati, l'istruzione è inesistente e la riconciliazione è impossibile a causa della violenza in corso.
L'Iraq dopo il 2003 offre un altro paragone: un paese dilaniato dalla guerra con infrastrutture distrutte, ma enormi riserve di petrolio che hanno finanziato la ricostruzione. Le multinazionali sono tornate, attratte dal petrolio e dai contratti di costruzione. La differenza cruciale: l'Iraq aveva un'industria petrolifera funzionante e ingenti aiuti militari e allo sviluppo internazionali. Il Sudan ha perso gran parte delle sue riserve di petrolio con l'indipendenza del Sud Sudan nel 2011; il petrolio rimanente viene sfruttato dalle parti in conflitto, non utilizzato per la ricostruzione.
Lo Yemen, proprio come il Sudan, è coinvolto in una brutale guerra civile, a dimostrazione dei pericoli di un'economia di guerra protratta nel tempo. Anche lì, diverse fazioni (gli Houthi, il governo sostenuto dall'Arabia Saudita) controllano parti del Paese e si finanziano attraverso l'esportazione di materie prime, il contrabbando e gli aiuti esterni. L'economia è al collasso e la popolazione soffre la fame e le malattie. Il confronto dimostra che senza una soluzione politica non c'è futuro economico. Il Sudan rischia di diventare un "secondo Yemen", uno Stato fallito con una guerra civile permanente e una crisi umanitaria perenne.
L'analisi mostra che la ripresa economica dopo un conflitto è possibile, ma richiede condizioni specifiche: uno stato funzionante (anche se autoritario), il controllo sulle entrate derivanti dalle risorse per finanziare la ricostruzione, un massiccio sostegno internazionale, una popolazione istruita e capace e un minimo di sicurezza e prevedibilità. Il Sudan non soddisfa nessuna di queste condizioni. Al contrario, il paese combina gli elementi peggiori: guerra in corso, governance frammentata, saccheggio delle risorse da parte delle parti in conflitto, mancanza di priorità internazionale, esodo di massa della classe istruita e totale insicurezza. Parlare di sviluppo economico o di espansione del mercato in questo contesto non è solo irrealistico, ma anche cinico.
Le verità scomode: rischi, dipendenze e distorsioni strutturali
Una valutazione critica della situazione economica del Sudan porta a diverse verità scomode che vengono spesso ignorate nei discorsi eufemistici sullo sviluppo.
In primo luogo, l'economia di guerra è redditizia per alcuni attori. Il generale Dagalo, leader delle RSF, è considerato uno degli uomini più ricchi del Sudan, con una fortuna accumulata attraverso il commercio di oro e la proprietà terriera. Gli Emirati Arabi Uniti traggono profitto dall'oro sudanese a basso costo e in cambio vendono armi costose. I commercianti egiziani sfruttano la difficile situazione dei rifugiati sudanesi. I signori della guerra del Darfur controllano le miniere e le rotte del contrabbando. Questi attori non hanno alcun interesse nella pace e nello stato di diritto, poiché ciò metterebbe a repentaglio i loro profitti. Finché le strutture di incentivazione premieranno la guerra, questa continuerà. Questa è la "maledizione delle risorse" nella sua forma più pura: la ricchezza di risorse – in particolare beni facilmente estraibili e contrabbandabili come l'oro – rende la guerra redditizia e la perpetua.
In secondo luogo, la comunità internazionale ha ampiamente abbandonato il Sudan. Mentre Ucraina e Gaza ricevono notevole attenzione e aiuti internazionali, il Sudan è un "conflitto dimenticato". Le ragioni sono molteplici: l'insignificanza geopolitica (il Sudan non è né rilevante dal punto di vista energetico né strategicamente centrale), la stanchezza del conflitto dopo decenni di crisi sudanesi, gerarchie razziste nell'economia dell'attenzione internazionale e la complessità di una guerra civile senza una chiara posizione di "buono" e "cattivo". La conseguenza: gli aiuti umanitari sono massicciamente sottofinanziati. Nel 2024, il Sudan ha ricevuto solo circa un terzo dei 4,2 miliardi di dollari necessari in aiuti umanitari. Gli aiuti allo sviluppo sono praticamente cessati. Questa negligenza internazionale significa che il Sudan non può aspettarsi il tipo di aiuti alla ricostruzione in stile "Piano Marshall" che è stato concesso ad altri paesi colpiti dalla crisi.
In terzo luogo, le conseguenze ecologiche e demografiche a lungo termine sono devastanti. Milioni di bambini non ricevono alcuna istruzione; un'intera generazione sta crescendo tra violenza, fame e disperazione. Il trauma è diffuso. Allo stesso tempo, l'ambiente e le risorse agricole si stanno degradando a causa dello sfruttamento eccessivo, della scarsa manutenzione dei sistemi di irrigazione e dei cambiamenti climatici. La desertificazione sta accelerando. Quando la guerra finirà, il Sudan si ritroverà con una popolazione ignorante e traumatizzata e con risorse naturali degradate: non certo una buona base per lo sviluppo.
Quarto: la frammentazione sociale e la divisione etnica sono aggravate dalla guerra. Le RSF sono accusate di aver condotto una pulizia etnica in Darfur contro le popolazioni non arabe. L'esercito bombarda indiscriminatamente le aree civili. Entrambe le parti usano la violenza sessuale come arma di guerra. Queste atrocità lasciano profonde fratture tra le comunità che dureranno per generazioni.
Anche se si raggiungesse un cessate il fuoco, la domanda rimane: come può una società così profondamente divisa ritrovare la strada della coesistenza pacifica e della cooperazione economica? Le esperienze del Ruanda, della Bosnia e di altre società post-conflitto dimostrano che la riconciliazione è possibile, ma richiede decenni e un impegno politico attivo, attualmente non prevedibile in Sudan.
Quinto: la dipendenza dalle esportazioni di materie prime perpetua il sottosviluppo. La struttura delle esportazioni del Sudan – oro, sesamo, gomma arabica, bestiame – è tipica di un esportatore di materie prime senza industrializzazione. Questi prodotti hanno un basso valore aggiunto, prezzi volatili e creano pochi posti di lavoro. Sono inoltre vulnerabili al controllo delle élite e dei signori della guerra. Uno sviluppo economico sostenibile richiede industrializzazione, diversificazione e catene del valore, tutte cose impossibili nel Sudan dilaniato dalla guerra. La guerra ha distrutto la già debole base industriale; la ricostruzione richiederà decenni.
Sesto: le sanzioni internazionali esistenti rendono difficile anche le attività imprenditoriali ben intenzionate. Le sanzioni dell'ONU, dell'UE e degli Stati Uniti includono embarghi sulle armi, divieti di viaggio, congelamento dei beni nei confronti di individui e restrizioni sulle transazioni finanziarie. Sebbene queste sanzioni riguardino ufficialmente solo settori e individui specifici, di fatto hanno un effetto deterrente su tutte le attività commerciali. Banche e aziende evitano il Sudan per timore di violazioni della conformità. Ciò significa che, anche se un'azienda sudanese volesse esportare legittimamente, farebbe fatica a trovare una banca internazionale disposta a elaborare le transazioni o un fornitore di servizi logistici disposto a trasportare merci.
I dibattiti controversi ruotano attorno alla questione della responsabilità e della soluzione. L'Occidente è obbligato ad aiutare il Sudan, o si tratta di una crisi "africana" che deve essere risolta dagli africani? Le sanzioni dovrebbero essere inasprite per esercitare pressione sulle parti in conflitto, o ostacolerebbero gli aiuti umanitari? Dovrebbero essere avviati negoziati con i signori della guerra per ottenere l'accesso alle organizzazioni umanitarie, o ciò legittimerebbe i criminali di guerra? Queste domande non hanno risposte facili e la comunità internazionale rimane divisa e paralizzata.
Gli obiettivi contrastanti sono evidenti: aiuti umanitari immediati contro la costruzione di uno Stato a lungo termine; negoziati con le parti in conflitto contro giustizia per le vittime; attenzione ai centri urbani contro le regioni rurali; investimenti in infrastrutture contro programmi sociali. Nell'attuale situazione di guerra, la sopravvivenza ha inevitabilmente la precedenza; le questioni di sviluppo strategico sono un lusso. Ma senza una prospettiva a lungo termine, il Sudan rimarrà intrappolato come uno Stato fallito.
La nostra competenza nell'UE e in Germania nello sviluppo aziendale, nelle vendite e nel marketing
La nostra competenza nell'UE e in Germania nello sviluppo aziendale, nelle vendite e nel marketing - Immagine: Xpert.Digital
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Crisi umanitaria ed economia: quale ruolo può svolgere la diaspora?
Tra distopia e speranza: possibili percorsi di sviluppo fino al 2035
Le previsioni per il Sudan sono fosche, ma non prive di alternative. Stanno emergendo tre scenari, che delineano futuri radicalmente diversi.
Scenario 1: Stato di errore permanente
In questo scenario pessimistico, ma purtroppo realistico, la guerra civile si trascina per anni senza che nessuna delle due parti ottenga una vittoria militare decisiva. Il Sudan si frammenta in sfere di influenza controllate da varie milizie, signori della guerra e attori stranieri. L'economia di guerra, basata sull'oro, sul contrabbando e sul sostegno esterno, si consolida. La catastrofe umanitaria diventa permanente. Milioni di persone rimangono nei campi profughi dei paesi vicini, sempre più ostili. La comunità internazionale si abitua alla crisi e riduce ulteriormente i suoi aiuti, già inadeguati. Il Sudan diventa una "seconda Somalia" o uno "Yemen", uno stato permanentemente fallito ai margini della comunità internazionale. In questo scenario, qualsiasi sviluppo economico è impossibile; il paese rimane una zona di guerra e un disastro umanitario per il prossimo futuro. L'espansione delle aziende sudanesi in Europa sarebbe assurda quanto immaginare pirati somali che aprono boutique ad Amburgo.
Scenario 2: Stabilizzazione fragile e ricostruzione lenta
In questo scenario moderatamente ottimistico, nei prossimi anni si raggiungerà un fragile cessate il fuoco, forse mediato dall'Unione Africana, dall'IGAD o da potenze internazionali. Le parti in conflitto concordano sulla condivisione del potere o su una federazione con regioni autonome. Sotto la supervisione internazionale, inizia un processo di ricostruzione, basato sulla riduzione del debito HIPC del 2021. Le banche internazionali di sviluppo e i donatori bilaterali forniscono miliardi. La priorità è data al ripristino delle infrastrutture di base, delle strutture sanitarie e educative e dell'agricoltura.
In questo scenario, il Sudan potrebbe sperimentare una modesta ripresa entro il 2030-2035. I calcoli dei modelli mostrano che il ripristino della produttività agricola ai livelli prebellici e l'investimento di circa 1 miliardo di dollari in infrastrutture potrebbero ridurre la povertà di 1,9 milioni di persone. L'economia potrebbe crescere del 3-5% annuo, ma, date le ingenti perdite, ciò rappresenterebbe solo una lenta ripresa. La popolazione rimarrebbe in gran parte povera e il Sudan rimarrebbe un tipico Paese meno sviluppato (LDC), dipendente dalle esportazioni di materie prime e dagli aiuti internazionali.
In questo scenario, potrebbero esserci alcune aziende sudanesi – principalmente nel settore agricolo (gomma arabica, sesamo) o nel settore dei servizi (ad esempio, startup fondate dalla diaspora) – che esportano modestamente. Tuttavia, anche in questo caso, si tratterebbe di prodotti di nicchia, non di un'offensiva di esportazione su larga scala. L'ingresso nel mercato europeo sarebbe arduo e richiederebbe anni di preparazione, certificazioni e capitali. Nella migliore delle ipotesi, i prodotti certificati Fair Trade provenienti dal Sudan potrebbero comparire in negozi specializzati, commercializzati con la storia della ricostruzione, un po' come il caffè ruandese o l'artigianato bosniaco dopo i conflitti. Non si parla di una "conquista" del mercato europeo.
Scenario 3: Rinascimento trasformativo
In questo scenario ottimistico ma altamente improbabile, la guerra si conclude rapidamente con un accordo di pace globale sostenuto da un ampio movimento della società civile. Un governo democratico di transizione, che include la società civile, assume il potere. Impressionata da questo cambio di rotta, la comunità internazionale mobilita un massiccio sostegno, sullo stile di un "Piano Marshall per il Sudan". Vengono istituite commissioni per la verità e la riconciliazione, sul modello di quelle in Ruanda o Sudafrica. Gli investimenti confluiscono in istruzione, sanità, energie rinnovabili e infrastrutture digitali.
Il Sudan sta sfruttando il suo enorme potenziale agricolo – 85 milioni di ettari di terra arabile, accesso al Nilo e un clima favorevole – e sta diventando il "granaio dell'Africa orientale". La produzione di oro è legalizzata e regolamentata, con entrate che confluiscono nel bilancio statale. Una giovane generazione esperta di tecnologia sta creando startup, in particolare nei settori fintech, agritech ed energie rinnovabili. La diaspora sudanese sta tornando con capitali e competenze. Entro il 2035, il Sudan sarà un paese a medio reddito con una democrazia funzionante, un'economia diversificata e una classe media in crescita.
In questo scenario, le aziende sudanesi potrebbero effettivamente puntare ai mercati internazionali: produttori alimentari che esportano prodotti biologici in Europa; aziende IT che forniscono servizi a clienti internazionali; aziende di logistica che sfruttano la posizione strategica del Sudan tra Africa e Medio Oriente. Tuttavia, anche in questo scenario più ottimistico, tale sviluppo richiederebbe 10-15 anni e presuppone prerequisiti significativi.
Scenari per il Sudan: opportunità di sviluppo o fallimento definitivo?
La realtà si collocherà probabilmente tra gli scenari 1 e 2: un fragile cessate il fuoco dopo anni di ulteriore guerra, seguito da una ricostruzione laboriosa e sottofinanziata. Le potenziali interruzioni sono numerose: shock climatici (siccità, inondazioni) potrebbero ulteriormente compromettere la già fragile sicurezza alimentare; conflitti regionali (come una ripresa della guerra civile in Sud Sudan o l'instabilità in Etiopia) potrebbero estendersi al Sudan; crisi economiche globali potrebbero far crollare i prezzi delle materie prime e ridurre gli aiuti allo sviluppo; cambiamenti tecnologici (come le alternative alla gomma arabica) potrebbero devastare i mercati di esportazione del Sudan.
Anche i cambiamenti normativi nell'UE potrebbero avere un impatto: norme più severe sui minerali provenienti da zone di conflitto, sulla prova di origine e sulla sostenibilità renderebbero ancora più difficile per gli esportatori sudanesi raggiungere i mercati europei. Allo stesso tempo, i programmi dell'UE per promuovere lo sviluppo africano, come la Global Gateway Initiative, potrebbero teoricamente offrire opportunità se il Sudan soddisfacesse gli standard politici ed economici minimi.
Anche la situazione geopolitica è incerta. Cina e Russia hanno interessi storici in Sudan (petrolio, attività minerarie, accesso ai porti sul Mar Rosso), ma la loro disponibilità a sostenere un Paese dilaniato dalla guerra è limitata. Gli Stati del Golfo (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita) sono entrambi parte del problema (forniture di armi, contrabbando di oro) e potenziali partner per la ricostruzione. L'UE e gli Stati Uniti hanno ampiamente accantonato il Sudan, ma potrebbero mostrare un rinnovato interesse in caso di cambiamento politico, anche grazie al controllo dei flussi migratori.
In sintesi, il Sudan si trova di fronte a un cammino lungo e arduo. Nello scenario migliore – pace fragile e ricostruzione internazionale – il Paese compirà modesti progressi fino al 2035 e rimarrà una nazione in via di sviluppo a basso reddito. Nello scenario peggiore – guerra civile prolungata – il Sudan diventerà uno Stato fallito permanente. In nessuno scenario realistico le aziende sudanesi saranno in grado di conquistare in modo sostanziale i mercati europei o di utilizzare la Germania come "punto di partenza" entro i prossimi dieci anni. L'idea rimane quella che è: un'illusione, ben lontana da qualsiasi realtà economica.
L’amara conclusione: non è un paese per imprenditori
Il bilancio finale deve essere sconfortante: il Sudan, allo stato attuale, non è un luogo adatto per ambizioni imprenditoriali, né tantomeno per l'espansione commerciale internazionale. L'analisi completa porta a diverse conclusioni chiave, rilevanti per i decisori politici, gli attori economici e anche per le comunità della diaspora sudanese.
Primo: l'economia sudanese non esiste attualmente come sistema funzionante. Ciò che sta accadendo in Sudan non è un'economia in senso moderno – con mercati, istituzioni, certezza del diritto e divisione del lavoro – ma un'economia di guerra in cui gli attori militari saccheggiano le risorse, la popolazione lotta per la sopravvivenza e tutte le attività produttive sono crollate a un livello di sussistenza. Parlare di "sviluppo del mercato" o "espansione" da questo punto di vista significa fondamentalmente fraintendere i fondamenti dell'attività economica.
In secondo luogo, la questione delle industrie sudanesi che potrebbero espandersi in Europa è errata. Presuppone qualcosa che non esiste: aziende sudanesi funzionanti con capacità produttiva, capacità di esportazione e acume strategico negli affari. La realtà è che le poche aziende sopravvissute stanno lottando per la propria sopravvivenza. Le nuove microimprese emerse durante la guerra servono bisogni locali di base nelle condizioni più rudimentali. Nessuna di queste dispone delle risorse, del capitale o del know-how per il commercio internazionale.
In terzo luogo, anche in settori teoricamente esportabili – gomma arabica, sesamo, oro, bestiame – ostacoli strutturali impediscono qualsiasi seria offensiva sulle esportazioni. Questi ostacoli includono: la perdita di controllo sulle aree di produzione a causa delle ostilità, l'interruzione delle catene di approvvigionamento e della logistica, la perdita di qualità e la mancanza di certificazioni, sanzioni internazionali e rischi di conformità, iperinflazione e svalutazione monetaria, fallimenti bancari e impossibilità di pagamenti internazionali, e danni alla reputazione derivanti dall'associazione con la guerra e i minerali provenienti da zone di conflitto. Questi ostacoli non possono essere superati attraverso il marketing o lo sviluppo aziendale; sono problemi fondamentali e sistemici che possono essere risolti solo attraverso la pace, la ricostruzione dello Stato e anni di sviluppo istituzionale.
Quarto: il ruolo di un "partner tedesco in marketing, pubbliche relazioni e sviluppo aziendale" sarebbe, semmai, quello di un consulente di realtà. Un fornitore di servizi tedesco affidabile dovrebbe spiegare ai potenziali clienti sudanesi che un'espansione in Europa è impossibile nelle condizioni attuali e che tutte le risorse dovrebbero invece essere concentrate sulla sopravvivenza, sugli aiuti umanitari e sulla preparazione alla ricostruzione a lungo termine. Il marketing non può creare prodotti che non esistono. Le pubbliche relazioni non possono ripulire un'immagine che è stata fondamentalmente danneggiata da guerra, fame e atrocità. Lo sviluppo aziendale non può stringere accordi dove non ci sono basi per essi.
Quinto: le implicazioni a lungo termine del collasso del Sudan si estendono oltre il Sudan stesso. Con 12,9 milioni di rifugiati e sfollati interni, il conflitto sta destabilizzando l'intera regione: Egitto, Ciad, Sud Sudan ed Etiopia sono sopraffatti dall'afflusso di sudanesi. La situazione di carestia causerà danni a lungo termine alla salute e allo sviluppo di milioni di bambini. L'integrazione economica regionale, ad esempio attraverso l'Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA), è ostacolata dal collasso del Sudan. Il Sudan non è solo un disastro nazionale, ma una catastrofe regionale con implicazioni globali (migrazioni, estremismo, costi umanitari).
Sesto: Le implicazioni strategiche per i diversi attori sono chiare. Per le aziende europee e tedesche: il Sudan non è un mercato. Non c'è nulla che valga la pena acquistare o vendere. L'impegno dovrebbe essere puramente umanitario o – per le imprese edili e gli specialisti delle infrastrutture – orientato alla ricostruzione a lungo termine dopo la guerra, in modo simile a come le aziende si stanno posizionando per la ricostruzione dell'Ucraina. Per i decisori politici in Germania e nell'UE: il Sudan non ha bisogno di promozione commerciale, ma piuttosto di mediazione del conflitto, aiuti umanitari e una strategia di sviluppo a lungo termine. Le sanzioni esistenti dovrebbero rimanere mirate a colpire i signori della guerra senza ostacolare gli aiuti umanitari. Per gli investitori internazionali: il Sudan è un paese inaccessibile nel prossimo futuro. Il rischio politico è massimo, lo stato di diritto non esiste e l'espropriazione e la violenza sono sempre possibili. Per le comunità della diaspora sudanese: l'impegno è importante per la ricostruzione a lungo termine, ma a condizioni realistiche. Gli investimenti della diaspora dovrebbero concentrarsi su istruzione, salute e società civile, non su accordi commerciali a breve termine.
Settimo: C'è un'amara ironia nella domanda originale. L'idea che le aziende sudanesi possano "conquistare" l'Europa inverte le reali dinamiche di potere. Storicamente, le potenze coloniali europee – Gran Bretagna e Francia – hanno sfruttato e dominato l'Africa. Ancora oggi, le materie prime fluiscono dall'Africa all'Europa, mentre i beni finiti e i capitali fluiscono nella direzione opposta – una disuguaglianza strutturale che sta peggiorando, non diminuendo. Il Sudan è l'esempio estremo di un paese al fondo di questa gerarchia: povero, dilaniato dalla guerra, dipendente dalle risorse, privo di capacità tecnologiche o istituzionali. L'idea che tali paesi possano "conquistare" i mercati europei sviluppati ignora completamente queste realtà strutturali.
La valutazione finale è quindi: il Sudan non è un partner per l'espansione economica, ma un'emergenza umanitaria di proporzioni storiche. La priorità deve essere porre fine alla guerra, alleviare le sofferenze umane e costruire uno Stato sostenibile. Solo quando queste condizioni fondamentali saranno soddisfatte – e ciò richiederà decenni nella migliore delle ipotesi – si potranno affrontare in modo significativo le questioni relative allo sviluppo economico, alle esportazioni e all'integrazione internazionale. Fino ad allora, qualsiasi discussione sulla penetrazione del mercato sudanese in Europa rimane non solo irrealistica, ma anche cinica alla luce delle incommensurabili sofferenze del popolo sudanese.
La raccomandazione strategica per tutti gli attori coinvolti è chiara: mantenere una visione realistica, non alimentare false speranze, stabilire priorità umanitarie e prepararsi per il lungo e arduo cammino della ricostruzione, ma non intraprendere avventure commerciali in un paese che attualmente esiste solo come zona di guerra.
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